Meta è il tentativo di Facebook di allontanarci dalla nuda (e cruda) realtà

Facebook non piace più come un tempo. Forse nemmeno a Mark Zuckerberg. Lo dimostra l’annuncio del rebranding della società, una scelta che sembra riflettere la necessità, se non addirittura l’urgenza, di cambiare rotta. Ok, ma per andare dove?

Per il momento c’è solo una visione, di concreto non c’è nulla. Sappiamo che la nuova Facebook, che per inciso si chiamerà Meta, non si limiterà a connettere le persone ma punterà al cosiddetto Metaverso, un mondo virtuale nel quale proiettare – letteralmente – la nostra identità digitale. Nel Metaverso, questa la promessa del fondatore e CEO della società, trasformeremo la nostra casa in un luogo “aumentato” nel quale i nostri amici si materializzeranno davanti ai nostri occhi ovunque essi siano, in cui lavoreremo come fossimo in ufficio, anzi meglio, dove faremo sport o shopping senza soluzione di continuità.

Sulla carta sembra il tentativo di arrivare a una convergenza fra il percorso compiuto su Facebook, Instagram, WhatsApp e le suggestioni della realtà virtuale offerte da Oculus, acquistata nel 2014. Ma anche un modo di immaginare un modello diverso di interazione, quello che per molti sarà il futuro di Internet. Un mondo nel quale le esperienze saranno sempre più sincrone e in tempo reale, ma anche più indipendenti da servizi, protocolli, app e tecnologie che oggigiorno circoscrivono, e in un certo senso limitano, la nostra esperienza. “Oggi ci sono gli schermi, domani potrebbero essere gli ologrammi”, preconizza il numero uno di Menlo Park, facendo capire che il Metaverso sarà una piattaforma aperta pensata per integrare tutti i tasselli che oggi compongono la Rete, non la solita meta-rappresentazione in realtà virtuale.

Visionario, verrebbe da dire. Se non fosse che stiamo parlando di Facebook, ovvero della società più chiacchierata degli ultimi anni. Quella che più di tutte ha tracciato una linea di demarcazione netta fra ciò che sta davanti e dietro le quinte.

La nostra mission rimane la stessa, connettere le persone”, ci tiene a precisare Mark Zuckerberg in un video che sembra essere uscito dagli studi della Pixar. Senza però rivelare la cosa più importante. Ovvero, chi ci sarà con noi? Quale sarà il ruolo di Facebook e dei suoi algoritmi in questa nuova meta-esperienza social?

La domanda è d’obbligo e non solo perché il business di Facebook (o perlomeno il 98% di esso) è basato sulla pubblicità targetizzata. No. Ciò che è emerso in questi anni – dallo scandalo Cambridge Analytica fino alle recenti rivelazioni dell’ex product manager Frances Haugen sfociate nei cosiddetti Facebook Papers – obbliga la società a fornire risposte concrete sul tipo di rapporto che vuole tessere con noi.

L’intermediazione è diventata troppo ingombrante, quasi insopportabile, in certi casi ai limiti del tossico. Lo ha capito anche l’utente medio, quello che magari non si cura troppo degli affari di Facebook. Un tempo apriva la pagina di Facebook per incontrare i suoi amici, oggi ci trova dentro di tutto: fake news, discussioni polarizzate su temi di enorme importanza che meriterebbero contrappesi di ben altro calibro rispetto a quelli visti finora, video nonsense che hanno come unico scopo quello di trattenerci di più e più a lungo sulla piattaforma. Contenuti sui quali – a prescindere da qualsiasi giudizio di natura etico – il ruolo discriminante degli algoritmi è sotto gli occhi di tutti.

Si dirà che, per quanto imperfetto, Facebook ha saputo intercettare meglio di chiunque altro le necessità di una società che oggi usa i social per fare di tutto, non solo comunicare, ma anche fare business, costruirsi una reputazione e persino delle relazioni personali. E che non è facile moderare una popolazione di miliardi di persone. Si dirà anche che le colpe di Facebook finiscono laddove iniziano quelle dei Governi Nazionali che non hanno capito (o forse hanno capito troppo tardi) che il filtro di Facebook e degli altri giganti del Web è ormai in grado di spostare tutti gli equilibri che contano, non solo quelli sociali, ma anche quelli economici e politici.

Tutto vero. Questo però non significa che Facebook possa esimersi dall’affrontare di petto quello che in fin dei conti è da sempre il nodo centrale del suo modello di business: barattare la gratuità dei suoi servizi in cambio delle informazioni personali, sia quelle concesse liberamente, sia quelle dedotte dai comportamenti. Ancor prima di un nome nuovo, Facebook avrebbe forse bisogno di un nuovo patto fiduciario con gli utenti, sugellato con una comunicazione trasparente (e non una metacomunicazione). Il rischio altrimenti è quello di gettare fumo negli occhi, trasformando il Metaverso in un luogo tutt’altro che invitante: tanto lussureggiante nelle apparenze quanto vuoto e instabile nella realtà.