Che cosa c’è dietro il ban della Cina sui microchip americani
La strategia di Pechino è quella di puntare sui “legacy chip”: potrebbe rivelarsi una mossa vincente
La settimana scorsa un articolo del Wall Street Journal ha rivelato che il presidente
cinese Xi Jinping avrebbe richiesto di eliminare i microchip di produzione straniera
dai sistemi di telecomunicazione del paese. Secondo un’ordinanza del Ministero dell’industria e della tecnologia di Pechino, le telco locali dovranno ora condurre un controllo delle proprie reti, individuare i chip di fabbricazione estera e creare una “roadmap” per arrivare alla loro completa sostituzione entro il 2027. Nel frattempo, ovviamente, dovranno smettere di acquistarne di nuovi, con un grave danno soprattutto per i due giganti americani del chip, Intel e Amd, che da sempre forniscono la maggior parte dei processori integrati nelle reti cinesi.
Sarebbe tuttavia ingenuo e semplicistico leggere nel provvedimento di Xi solo una semplice vendetta geopolitica. La verità è infatti che questo genere di azioni non è solo rivolto contro l’esterno, ma, nei piani dei cinesi, dovrebbe soprattutto sortire un effetto interno, a favore dell’industria cinese dei semiconduttori. Come accaduto in altre filiere, la Cina sta infatti perseguendo anche nei chip una strategia – in realtà piuttosto canonica nel vasto bestiario della politica industriale – di “sostituzione delle esportazioni”. È infatti evidente che impedendo a settori così consistenti della propria industria tecnologica di rifornirsi all’estero, il governo cinese non solo arreca un danno economico ai fornitori stranieri ma genera una domanda di forniture alternative che, sperano a Pechino, verrà colmata da un aumento di capacità produttiva interna.
Dopo aver tentato a lungo di produrre internamente i chip più avanzati, ed essersi scontrata non solo con le contromosse americane ma anche col fatto che la supply chain dei semiconduttori di ultima generazione è così complessa e stratificata da non poter essere facilmente “appropriata”, nell’ultimo anno la Cina sembra aver cambiato strategia. Come ha dichiarato lo scorso dicembre Gina Raimondo, segretaria al commercio dell’amministrazione Biden: “la quantità di denaro che la Cina sta immettendo per il sostegno della sua industria causerà un eccesso di capacità di legacy chip”. Col termine “legacy chip” si intendono chip dalle prestazioni “standard”, quindi non l’avanguardia della tecnologia.
Dal punto di vista cinese, i “legacy chip” hanno il vantaggio di poter essere prodotti senza bisogno di ricorrere a macchinari e componenti sotto veto americano e di essere caratterizzati da uno yield molto alto (lo yield – traducibile come rendimento – è il dato che fornisce la percentuale di chip funzionanti sul totale di quelli prodotti ed è una misura importante per valutare la sostenibilità economica di un ciclo di produzione di chip).
Secondo stime di febbraio 2024, si prevede che la produzione cinese di questo tipo di chip crescerà del 60% nel corso dei prossimi tre anni, e potrebbe raddoppiare entro i prossimi cinque. A oggi la Cina possiede 44 fab, tutte in grado di produrre legacy chip, con “processi maturi” e quindi a rendimento elevato. A questi impianti già operativi, punta ad affiancare 22 ulteriori fab e, a questo scopo, nel 2023 ha aumentato gli ordini di macchinari litografici (seppure non di “ultima generazione”) del 1050% rispetto all’anno precedente.
Con queste cifre, è evidente che la Cina miri a divenire l’epicentro globale della manifattura di “legacy chip”. Circuiti con cui forse non si addestrano le AI ma si fa funzionare l’elettronica di tutti i giorni: smartphone, automobili, elettrodomestici intelligenti e così via. Una categoria a cui appartengono gran parte dei chip usati nei processi basilari dei sistemi di telecomunicazione e nell’informatica di tutti i giorni, ovvero esattamente quelli di cui Xi Jinping ha di recente “bandito” l’importazione.
È dunque in quest’ottica che, come detto, si può leggere la notizia di questo ban, ovvero un modo di ottenere “due piccioni con una fava”. Non solo arrecare un danno economico ai grandi nomi del chipmaking americano ma anche assicurare una domanda tale da sostenere, insieme ai sussidi diretti, lo sviluppo dell’industria cinese dei semiconduttori in una fase in cui essa sta cercando di prendere possesso del maggiore numero possibile di quote del mercato dei “legacy chip”.
Se la strategia avesse successo la Cina riuscirebbe a esercitare un controllo sul prezzo e sulle dinamiche di domanda e offerta dei “legacy chip”, acquisendo di conseguenza un peso specifico rispetto all’intera supply chain, tale per cui guadagnerebbe una nuova, e notevole, leva negoziale per controbilanciare l’efficacia dei veti americani, soprattutto sulle esportazioni di tecnologie non prodotte direttamente dagli Usa.